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Italia verso l’uscita dalla crisi?

da | Set 2, 2015 | Editoriale | 0 commenti

Gli effetti della Crisi

La difficoltà dell’economia italiana di uscire dalla crisi economica, ha una storia che parte prima del 2007, anni in cui molte imprese hanno realizzato importanti investimenti con significativi indebitamenti.

Molte imprese non hanno sopportato la situazione di crisi, alcune hanno capitalizzato gli investimenti, soprattutto su mercati esteri, puntando su qualità e Made in Italy, ma la maggior parte non essendo riuscite a crescere per dimensione, capacità d’investimento e innovazione, sono rimaste al palo, supportate principalmente dalla Cassa Integrazione.

Nel periodo 2010 -2014 la quota di investimenti delle imprese italiane, rispetto al PIL, ha perso tre punti percentuali, a differenza della vicina Germania che invece è aumentata di un punto percentuale.

In questo modo il settore manifatturiero italiano, secondo in Europa dopo la Germania, ha perso in produttività.

E’ l’annoso problema di un Paese che è privo di una cultura d’impresa, complici anche i vari “attori” del Sistema economico/finanziario, politica inclusa, che non hanno saputo offrire servizi innovativi alle imprese per una vera e propria rivoluzione del modello imprenditoriale applicato.

Sempre nello stesso periodo di riferimento il PIL per occupato in Italia è sceso di 2,5 punti, mentre in Germania è cresciuto di quasi altrettanto.

Occorre fare ripartire la fiducia

Il vero problema riguarda gli interventi dello Stato per fare ripartire l’economia. La riforma del mercato del lavoro, così come gli incentivi al consumo paventati dall’attuale Governo, c’è da chiedersi quale contributo possono dare nel medio/lungo periodo, ad una situazione che richiede interventi molto più incisivi, anche, e soprattutto, sul versante psicologico: fare ripartire la fiducia degli Italiani nei confronti del Paese.

Così come sperare in una fine del periodo recessivo, determinata da un aumento di qualche punto decimale del PIL, in un Paese che presenta problemi strutturali difficilmente risolvibili, non credo sia una prospettiva a cui sperare. Certo, occorre comunque considerare positivo l’aumento dello 0,6% del PIL, e l’aumento occupazionale determinato, pare, dal “Jobs Act”; condizioni che ci portano in effetti verso l’uscita dalla recessione, ma senza farci troppe illusioni.

Il ruolo delle banche

Per alcuni, in verità molti, l’approccio fortemente speculativo delle banche ha di fatto contribuito alla determinazione della fase di recessione. A sentire le parole di Carlo Messina, CEO di Intesa San Paolo, da un’intervista pubblicata su Corriere.it, l’Italia sembra un Paese diverso da quello con il quale ci si confronta ogni giorno. Secondo Messina, che considera le banche il “termometro dell’economia”, nonché l’infrastruttura finanziaria dell’economia reale, infatti, pare che l’Italia sia fuori dalla crisi e si sia rimessa in moto. L’onda delle sofferenze bancarie delle imprese si sta riducendo, ed hanno ripreso ad investire, anche sulla domanda interna. Non solo, pare anche che gli investitori stranieri credano nelle potenzialità del nostro Paese e nelle riforme del Governo. Infine, dichiara Messina, “siamo secondi al mondo per capacità di risparmio”. Parole di un banchiere, che probabilmente confonde il successo della sua banca con quello del Paese.

Il divario socio economico

Il vero termometro dello stato di salute del Paese, purtroppo, è da considerarsi il divario socio economico che interessa la popolazione. Una forbice fortemente allargata che non riguarda più solo Nord – Sud, ma l’intera società a prescindere dall’area geografica di appartenenza. Un divario che deve essere colmato, con una forte spinta all’equità sociale, che deve partire da una migliore allocazione delle risorse finanziarie. In proposito c’è chi ricorda, in modo critico, che la decontribuzione del Jobs Act graverà, solo quest’anno, per 1,9 miliardi di euro sulle Casse dello Stato. Va ricordato, agli stessi critici, che le famose pensioni d’oro, sì sempre quelle, gravano ogni anno sulle casse dello Stato per almeno 13 miliardi di euro.

E dire che una riforma delle pensioni, sarebbe molto più semplice e pratica da gestire, e sarebbe comunque un ottimo segnale verso quei milioni di Italiani, che in quanto a diritti, sembrano appartenere ad un altro Stato. Insomma c’è bisogno di fiducia ed equità, ma non quella con il suffisso “italia”.

Andrea Lodi (redazione.economia@sulpanaro.net)

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