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20-29 maggio 2012: il “Ricordo della Bassa” di Francesco Mandrino

da | Mag 29, 2014 | speciale terremoto | 0 commenti

Per ricordare il secondo anniversario della scossa del 29 maggio, pubblichiamo un testo del poeta sanfeliciano Francesco Mandrino. Lo abbiamo intitolato, facendo il verso ad Antonio Delfini, “Ricordo della Bassa”.

 

  • di Francesco Mandrino*

Il cielo aspettava ancora le prime luci dell’alba quando un brontolio profondo e sordo, che avevamo sentito solo a volte di lontano, divenne rapidamente un tremore crescente e poi una serie di scosse e di sobbalzi. Quel 20 maggio ognuno perse le ultime ore di sonno.
L’illuminazione non era venuta a mancare ma i telefoni erano in stallo, poi la gente attonita ed incredula era scesa per le strade, qualche auto correva verso la casa di un famigliare, di un parente, un bar serviva caffè e cappuccini su di un tappeto di cocci di bottiglie; tutto sembrava impossibile e possibile allo stesso tempo.
Non passò molto perché i mezzi dei Vigili Urbani cominciassero a perlustrare la zona per rendersi conto dell’entità dell’accaduto; alla sede della Croce Blu cominciarono a confluire i volontari, iniziarono a comparire le prime bande biancorosse a delimitare le aree di pericolo. Certamente qualcuno aveva già provveduto a porre la patata bollente nelle mani del Sindaco, al suo primo mandato ed al suo primo terremoto.
Tutto questo mentre molti non avevano ancora superato la prima fase dello shock.

I cittadini vennero invitati con ogni mezzo ad uscire dalle case ed a portarsi in luoghi aperti, dove concentrare specialmente e soggetti più deboli, anziani malati e disabili, che la Croce Blu stava organizzandosi per trasportare al Centro di Raccolta che si stava allestendo presso le scuole medie. Dalle località più vicine cominciavano intanto a giungere i primi soccorsi: Ambulanze complete di equipaggio, Unità Mediche, Vigili del Fuoco e i primi volontari della Protezione Civile. Era il caos, alle scuole medie anziani e disabili avevano trovato un posto provvisorio e venivano in qualche modo assistiti, ricevevano i primi pasti, le cure ed i medicinali, reagendo inaspettatamente senza panico, nell’insieme in modo dignitoso; apparentemente era il caos ma si stavano già individuando le linee di un intervento che si annunciava particolarmente complesso, articolato e di lunga durata.
Mentre cominciavano ad arrivare i primi materiali di soccorso, presso i capannoni dismessi dalla Del Monte venne allestito un magazzino di stoccaggio, che sarebbe in seguito servito a ricoverare anche gli aiuti per le località limitrofe più in difficoltà. Dell’organizzazione di quello che sarebbe diventato un immenso deposito dei materiali più diversi venne investito Alfredo Reggiani, che da quel momento diresse le operazioni in modo encomiabile rimanendo sepolto fra pile di bancali e contenitori vari sin alla fine dell’emergenza.

Francesco MandrinoLa colonna di soccorso dell’Associazione Nazionale Alpini di Trento aveva qualcosa di imponente quando si presentò alle porte del paese. Sembrò a tutti impossibile che in una tale manciata di ore potesse essere stata allestita un’Unità di Soccorso di quelle dimensioni: i mezzi, i materiali ed ancor più le persone, uomini e donne; tutto l’occorrente per allestire un campo e per gestirlo. La piazza del mercato fu riempita dal Campo Trento.
Poi le colonne della Protezione Civile della Regione Liguria e della Provincia di Piacenza, che allestirono e gestirono il Campo San Biagio. E i volontari della Regione Veneto per il Campo delle Piscine, e poi i volontari dell’Associazione Nazionale delle Misericordie per il Campo ai Servizi Sanitari. Ognuno di questi dotato, oltre che delle tende attrezzate per l’alloggio, anche dei materiali d’uso: cucine, apparati per la distribuzione dei pasti, tendoni e tavoli da mensa, nonché del personale sufficiente per gestire il tutto, anche se vi sono stati casi in cui alcuni ospiti dei campi stessi si sono offerti per aiutare i volontari.
L’Associazione Nazionale Carabinieri mise a disposizione la professionalità dei propri volontari per garantire la sorveglianza e l’ordine all’interno dei campi dove qualche volta, a causa della tensione accumulata dagli ospiti più provati e della contemporanea presenza di etnie diverse, si sono verificate situazioni di frizione.
Le scosse continuavano di intensità minore ma ragguardevole, nessuno parlava di fase discendente tuttavia si poteva sperare, si voleva sperare. Nel frattempo bisognava operare un capillare controllo del territorio nei centri urbani rimasti spopolati e nelle campagne da dove molti erano sfollati. Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Vigili Urbani pattugliarono con metodo ogni realtà, prendendo contatto con la popolazione rimasta in loco per segnalare eventuali situazioni di attenzione. Bisognava gestire il territorio rurale esistente: il recupero di un minimo di cose dalle case abbandonate, l’assistenza a coloro che avevano allestito campi di fortuna presso le case danneggiate, a tutti coloro che non sapevano a chi rivolgersi per tutto e per ogni cosa che necessitava loro, mentre qualche negozio tentava faticosamente di riprendere l’attività. Servivano volontari per un’infinità di compiti specifici che esulavano dalla gestione dei campi. E volontari vennero inviati da diverse province: Forlì-Cesena, Reggio Emilia, Modena con la partecipazione del Comune e delle Terre dei Castelli. Numerosi volontari locali continuarono ad avvicendarsi presso il deposito generale dei capannoni Del Monte, dove continuavano ad arrivare merci di ogni tipo inviate da soggetti istituzionali ma anche in modo autonomo da gruppi e da privati, che spesso sulla scia di conoscenze personali avevano deciso di attivarsi al di fuori dei canali istituzionali inviando vere e proprie colonne di automezzi carichi di generi di prima necessità, che in alcuni casi vennero divisi con le località limitrofe. Soltanto lo scarico, la catalogazione e la separazione dei vari materiali impegnava alcuni carrelli elevatori e numerose persone.
Avevamo la certezza di non essere stati lasciati soli, da questo nasceva la sensazione che tutto cominciasse a girare con una certa scioltezza, che avremmo potuto cominciare a leccarci le ferite. Insieme agli ingegneri della Protezione Civile avevamo incominciato a visionare le case per verificarne la possibile agibilità o rilevarne i danneggiamenti, avevamo incominciato a vedere quali interventi sarebbero stati sufficienti per riavviare le attività produttive: cominciavamo a sentirci coi piedi saldi per terra.
Invece la mattina del 29 maggio la seconda scossa fu più breve ma più devastante della prima. Perdere improvvisamente l’equilibrio e cadere carponi come un bambino ha qualcosa di umiliante per una persona anziana, questo accadde a molti che non trovarono qualcosa cui aggrapparsi o che stavano andando in bicicletta. Ci fu chi vide i nastri d’asfalto delle strade ondeggiare come tappeti sbattuti, chi vide gli alberi dei frutteti inchinarsi fino a toccare con la punta la base degli alberi dei filari vicini, chi vide le case piegarsi paurosamente da un lato e poi dall’altro; chi vide la propria abitazione che aveva resistito alla prima scossa cadere in macerie. Ciò che il buio della notte sembrava averci risparmiato la prima volta ora, nella luce del mattino, senza pietà ci veniva gettato in faccia “in diretta”. Ci guardavamo come stupiti, cercando gli uni negli occhi degli altri la conferma che fosse finita. Intanto l’aria si era già riempita del rumore sordo ed un po’ minaccioso degli elicotteri. In diversi sorvolarono la zona; qualche ripresa aerea che passò successivamente in televisione può aver dato solo un’idea parziale dell’insieme che devono aver visto quegli equipaggi, fra i quali anche Luciano Dallolio di Camposanto, titolare della Scuola Arte Volo di San Felice sul Panaro nonché Istruttore di volo, prontamente levatosi in volo per un’accurata ricognizione delle zone disastrate dal sisma, pronto a comunicare alla Protezione Civile eventuali necessità di un loro intervento, come già aveva fatto alle prime luci del giorno della prima scossa.
E ancora i Vigili Urbani, i Carabinieri, la Guardia di Finanza, i Vigili del Fuoco a ripercorrere le strade di campagna nella penosa opera di chiedere: “Ci sono dei feriti? Qualcuno si è fatto male? Abita qualcuno più avanti? Avete visto quelli che abitano là in fondo?.” E di ascoltare le risposte: “Qui stiamo bene, ci siamo tutti! Là abitano dei marocchini, là dei vecchi, là degli indiani, dei cinesi”. E il batticuore inevitabile ogni volta che si vedevano intervenire i volontari delle Unità Cinofile.
Come in una tragica allegoria, il lutto che ci colpì nel nostro piccolo mondo, grave come lo è sempre ogni lutto, accomunò nella loro vastità tre continenti che possiamo ancora riconoscere nei nomi delle vittime:

Kumar Pawan,  Azarg Mohamad,  Gianni Bignardi.

Per tutti gli altri, quella speranza che ci si era affacciata pur in assenza di assicurazioni ora si trasformava pian piano in una condizione che ci teneva sospesi in un limbo di fatalità, nell’attesa di una possibile ulteriore scossa. Chi poteva correva a puntellare con travi di legno, ad imbragare con cavi o tiranti d’acciaio, chi a demolire le parti pericolanti che compromettevano le abitazioni risparmiate.
Tutto fu da rifare: i sopraluoghi, le valutazioni, la parte burocratica che era stata evasa dai dipendenti dell’Amministrazione Comunale che, già insufficienti, incontrarono ulteriori difficoltà. In quella situazione furono di particolare aiuto i volontari ed il personale specializzato inviato a supportare tali attività da comuni e province. Il lavoro da compiere sembrò aumentare a dismisura ed il ritorno ad una pur minima sorta di normalità ancora più lontano. Lo sconforto si impadronì di molti e nelle fasi successive fu determinante il contributo offerto dalle Unità di Supporto Psicologico operanti in ogni campo unitamente ai Presidi Sanitari.

Gli edifici storici che da sempre avevano costituito parte della nostra identità giacevano in condizioni che non lasciavano intravvedere una soluzione semplice né facile, anche senza considerare gli eventuali costi. Non possiamo sapere quali altri danni abbia scongiurato l’eccezionale opera dei Vigili del Fuoco di Trento. Se la parziale riapertura del centro storico è potuta avvenire in tempi relativamente brevi lo si deve al lavoro di puntellatura, consolidamento e messa in sicurezza della maggior parte degli edifici da parte dei loro tecnici e delle loro maestranze. Il legno ha praticamente rivestito gran parte delle facciate dei palazzi del centro, cambiandone la fisionomia. Qua e là, affissi alle travi, sono successivamente apparsi accorati messaggi di ringraziamento.
Anche il paesaggio rurale risultò profondamente cambiato, case coloniche che eravamo abituati a vedere fin da bambini erano crollate o in rovina, case abitate ancor di recente o ancora abitate fino alla prima scossa si presentavano definitivamente compromesse. L’ondata di sensazione suscitata dall’evento sismico andava lentamente scemando nei mezzi di comunicazione, eppure per noi poco era cambiato, bisognava scuotersi e ricominciare ad agire, anche se intervenire in molti casi significava abbattere, radere al suolo, mentre per qualcuno anche la vita stessa risultava lesionata e compromessa, qualcuno che aveva resistito all’impatto col sisma non sarebbe riuscito poi a superarne i postumi.

Il vuoto lasciato nelle aree sgombrate dalle macerie fu inferiore solo a quello lasciato nel cuore di molti residenti. Le pinze dei bracci meccanici portavano alla luce mobili fracassati, indumenti come stracci multicolori, fotografie e fogli di carta che volavano nell’aria pur pesante. Gruppi di persone assistevano in silenzio, qualche raro commento nel riconoscere un oggetto, un particolare; poco discosti, quasi appartati, alcuni si stringevano fra loro, qualche abbraccio, qualche sommesso singhiozzo. Mentre la polvere si posava, si alzava sulle macerie una tristezza infinita, il cuore schiacciato dal peso di ricordi divenuti improvvisamente volatili.

 

(* Il testo fu pubblicato, nel 2013, in un libro fotografico intitolato Immagini e realizzato dal Comune di San Felice sul Panaro, in collaborazione con l’Acetificio Pontiroli e la tipografia Baraldini. In calce al testo, in quell’occasione, comparve, verosimilmente per un disguido, la dicitura ‘l’Amministrazione Comunale’. Ripubblicandolo, per gentile concessione dell’autore, cogliamo anche l’occasione per attribuirlo a colui che ha vergato queste righe: lo stesso Francesco Mandrino).

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